rec. GIOVANNI PAPINI-GIUSEPPE PREZZOLINI, Carteggio III, 1915-1956.
Dalla Grande Guerra al secondo dopoguerra
Pubblicato in: Antologia Vieusseux, n. 57, pp. 174-179.
171-172-173-(174-175-176-177-178-179)
Data: settembre - dicembre 2013
174
È stato uno dei più importanti carteggi letterari del Novecento: una conversazione «vitaminica» durata più di cinquant’anni, che ha attraversato la storia italiana da una posizione privilegiata, dai fastosi e spregiudicati inizi del «Leonardo», fino alle ultime memorie della vecchiaia: Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, ovvero Giuliano e Gian Falco, si conoscono nel 1899 e proseguono per mezzo secolo a riflettere, indignarsi, filosofare, recensire, scrivere, sempre animati dallo spirito vivace e vorace che aveva segnato gli anni degli esordi fiorentini. Dopo i primi due volumi del 2003 (1900-1907) e 2008 (1908-1915), il Carteggio è uscito ora in un terzo ed ultimo tomo, dedicato agli anni 1915-1956, con l’aggiunta di una interessante Appendice delle missive degli anni precedenti rinvenute nel corso del lavoro, per le cure di Sandro Gentili e Gloria Manghetti, nelle edizioni di Storia e Letteratura e in collaborazione con la Biblioteca Cantonale di Lugano, dove Prezzolini aveva trascorso gli ultimi anni della sua lunga vita (1882-1982) e a cui ha lasciato tutto il suo preziosissimo Archivio. Un’edizione modello, sia per la curatela che per la ricchissima annotazione, dotata di un indice dei nomi che, integrato con quello dei primi volumi, costituisce una carta geografica letteraria della prima metà del Novecento.
L’arco temporale potrebbe sembrare meno interessante dei precedenti: nel 1915, con lo scoppio della guerra, termina infatti quella stagione fervida e vivace che aveva visto Firenze, per quasi un ventennio, capitale «militante» del paese (come aveva scritto nel 1960 Contini), e anticipatrice dei grandi rivolgimenti del secolo, tanto da costringere, chi volesse andare alle Origini della modernità letteraria (titolo di una recente pubblicazione, curata da Gino Tellini e dal Centro Studi Aldo Palazzeschi che ripresenta i materiali della mostra di cui avevamo parlato nel n. 40 del 2008, Dal Vate al Saltimbanco. L’avventura della poesia a Firenze, tra belle époque e avanguardie storiche) a ripassare di lì, ripercorrere luoghi, strade, istituzioni, editori e riviste (il DVD che accompagna il testo è una sintetica e fascinosa introduzione allo studio della letteratura italiana del Novecento...). E invece, anche questo terzo tomo è un passaggio obbligato, e di queste «vitamine elaborate dalla conversazione», come scrive Sandro Gentili nell’ampia introduzione (p. XXIX), abbiamo ancora molto bisogno, per capire meglio il quarantennio che i due
175
interlocutori hanno attraversato, cruciale e tragico, e tornare a mettere all’ordine del giorno l’intreccio tra letteratura e realtà, parole e cose, attraverso l’intelligenza acuta di due protagonisti del secolo.
Pur non avendo preso parte attiva nelle vicende politiche italiane (Prezzolini si definisce «riaffetto dal male dell’intelligenza, dal desiderio di capire e razionalizzare che impedisce di partecipare e agire», p. IX), i due sodali hanno contribuito prima a sprovincializzare il nostro paese, poi a metterne in luce le profonde contraddizioni, vissute, essi stessi, in prima persona, soprattutto, come vedremo, negli anni del Fascismo, e ci hanno consegnato alla fine di questa lunga conversazione, molte chiavi di lettura, a posteriori, per capirlo. Basti pensare alla fulminante dichiarazione di una delle ultime lettere di Prezzolini, il 22 marzo 1956: «L’Italia liberale era un paese europeo, quella fascista diventò provinciale ed ora siamo al perimetro della parrocchia» (p. 681).
Il volume li coglie all’inizio del 1915 al bivio della guerra, sostenuta da entrambi con motivazioni diverse: «per Prezzolini [...] l’esame di maturità che avrebbe introdotto l’Italia alla vita adulta di nazione europea, per Papini un’indispensabile esperienza eversiva del sistema vigente (giolittiano), ma tutt’altro che risolutiva, per cui il compito educativo della classe dei colti si sarebbe riproposto immutato con il ritorno della pace» (così Gentili, nell’Introduzione a p. X). Durante il conflitto, all’irruenza di Papini, Prezzolini contrappone l’invito alla prudenza, lavorando con De Robertis alla letteratissima «Voce Bianca», in cui investe le medesime energie che aveva riversato dieci anni prima nel «Leonardo» e nella «Voce». Varrebbe la pena rileggere i testi da lui pubblicati nell’immediato dopoguerra, in questi tempi di celebrazioni “1915-1918”, Dopo Caporetto e Vittorio Veneto, per capire l’humus nazionalistico da cui scaturirà il primo fascismo, ma anche riprendere un testo fortemente prezzoliniano come il Codice della vita italiana (Roma, La Voce 1921), in cui vengono passati in rassegna tutti i principali difetti della popolazione del bel paese: «la mancanza della parola, il servilismo, l’individualismo esagerato, l’abitudine del piccolo inganno e della corruzione» (p. IX, n. 13). Uno sguardo lucido e provocatorio, capace di sollecitare vivaci confronti e feconde polemiche, come quella con Gobetti e Don Sturzo, scoppiata sulle pagine di «Rivoluzione Liberale», con l’articolo Per una società degli apoti, il 28 settembre 1922, ad appena un mese dalla marcia su Roma, dove con «apoti» Prezzolini individua quegli intellettuali incapaci e maldisposti ad agire per potere valutare gli eventi con animo distaccato e imparziale. Uno snodo cruciale, alle soglie del Ventennio, con cui gli intellettuali del Novecento si sarebbero confrontati fino agli anni Settanta.
Ma mentre per Prezzolini la realtà va esaminata sub specie temporis, Papini matura con la conversione al Cristianesimo la propria «coscienza acuta della malvagità originaria dell’uomo» ed elabora contemporaneamente il proprio
176
(letterario) progetto di riscatto per via d’amore (p. XII). Un progetto astorico, una visione sub specie aeternitatis, che prende le forme di una rivalutazione della dimensione trascendente, non tanto intesa come impegno sociale nel mondo, ma in chiave «anacoretica», e quindi: «disprezzo del mondo, il pessimismo antropologico e l’orrore della modernità materialista» (Gentili, a p. XIV). Visione che rende la spaccatura, riportata dalla lettera di Prezzolini del giugno 1922, inevitabile: «Noi ci troviamo ora molto molto distanti, quanto non lo siamo mai stati e irrimediabilmente». La pubblicazione, nel 1923, con Domenico Giuliotti, del Dizionario dell’omo salvatico, rende la frattura insanabile «siamo sulle due rive opposte d’un gran fiume» (p. XVIII).
Credo che queste – e non una preconcetta rimozione in chiave antifascista – siano principalmente le ragioni che terranno i due intellettuali lontani dal dibattito culturale del secondo Novecento, ormai avviato su altri piani, con altri interlocutori: un intellettualismo letterario che avrebbe portato il primo a svolgere quell’analisi sub specie temporis in America, coscienza critica del nostro paese da lontano – capace di coglierne i mali antichi – ma incapace di decifrarne il presente (tanto da considerare un merito di equidistanza politica l’avere pubblicato, l’anno del delitto Matteotti una biografia di Mussolini e, il successivo, quella di Giovanni Amendola), l’altro a radicalizzare il distacco dal mondo sub specie aeternitatis, in un ruolo profetico – coscienza religiosa da vicino – che lo avrebbe sempre più avvicinato alle frange più reazionarie del cattolicesimo (come l’amico non avrebbe mai smesso di rimproverargli).
Vittime entrambi, e piuttosto consapevoli, della crisi di quel modello di intellettuale che aveva esaurito il suo ruolo subito dopo la Grande Guerra, ma testimoni, ciascuno nelle sue forme, di un mondo in cui, pur avendone alcune chiavi di lettura, non aprivano più le porte. Basti pensare a quanto scrive Papini il 4 ottobre 1919, in pieno biennio rosso: «abbiamo una lotta tra Mammona e Calibano, tra la Plutocrazia e il Proletariato. [...] Qualunque sia la classe che vinca la libertà sarà sagrificata, diminuita. Gl’Intellettuali che parteggiano per gli uni o per gli altri avranno sempre meno influenza nel mondo. I Ricchi li comprano finché ne hanno bisogno, i Poveri ne diffidano. I più onesti, come Bissolati o Turati, che tentano di costruir ponti, son malvisti e saranno costretti a nascondersi». Ma di fronte al disagio sociale la ricetta è solo una: piuttosto che cambiare il paese, si deve cambiare l’uomo e per questo cambiamento non serve la politica, ma «Scuola, la Cultura, l’Apostolato, la Filosofia, l’Arte, la Religione» (p. 123).
Dopo la guerra, ciascuno dei due offre una personale soluzione al problema sociale e (ancora così attuale) della dimensione economica dell’intellettuale: Papini diventando collaboratore fisso di Vallecchi, e accentuando così, in chiave confessionale, la sua dimensione letteraria; Prezzolini, dopo avere tentato di riproporre l’esperienza vociana a Roma con la Società Anonima Editrice
177
La Voce, collaborando all’Agenzia del lavoro presso la sede romana del Foreign Press Service di Arthur Livingston, e preparando così la strada all’avventura parigina e poi americana.
Questa duplice impostazione si riflette anche nella lettura del primo Fascismo, che entrambi identificano come rivoluzione antiborghese di riappropriazione della tradizione italiana, e di cui entrambi rivendicano una personale «anticipazione»: dal mondo della «Voce», per Prezzolini, che vedeva l’applicazione del sistema di valori vociano nella riforma della scuola targata Gentile o dalla linea Lacerba-Soffici, come voleva Papini, decretando così, come ben mette in rilievo Gentili, la fine di ogni prospettiva pedagogica dell’intellettuale: «Assunto il nuovo regime come un fatto naturale, un terremoto che si accetta e non si discute; convintosi che gli uomini siano mossi in prima istanza dalle loro immaginazioni, non dalla ragione e neanche dall’interesse; considerata la libertà un valore elitario, mentre la massa mostra di essere paga (cattolicamente) della delega di responsabilità al capo, ogni residua funzione intellettuale-pedagogica, funzione a cui aveva legato il proprio impegno pubblico, veniva a cadere» (p. XXI).
Il prezzo da pagare, almeno per «Giuliano», sarà una progressiva perdita di identità («Ho abbandonato me stesso. “Giuseppe Prezzolini” è uno pseudonimo che adopero ancora qualche volta», lettera del 27 dicembre 1931), un «machiavellismo» che cede al «guicciardinismo», un nazionalismo di riflesso che vede nel Fascismo la certificazione dei propri valori. Se è vero che Prezzolini si trasferisce negli Stati Uniti, come docente della Casa italiana della Columbia University di cui sarà direttore dal 1930 fino al secondo dopoguerra, quando Mussolini è al culmine del consenso, è anche vero che la lontananza e il clima internazionale respirato in America non gli impediranno cedimenti alla cortigianeria, fino a punte di vera e propria idolatria, come nelle Impressioni di uno che ritorna, pubblicate nel 1933.
Non meno irretito dal carisma narcissico del Duce sarà Papini, che dopo i Patti lateranensi non mancherà di sottolineare, in un celebre saggio carducciano, come l’Italia attraversasse quel Secondo Rinascimento profetizzato dal poeta versiliano e inverato solo dallo statista romagnolo: «il più grande di tutti, non letterato puro ma potente artista dell’azione, l’unico che abbia saputo tradurre in concreta realtà i sogni del poeta» (n. 47, p. XXVI). Lo snodo dei Patti lateranensi inaugura per entrambi un’involuzione di Regime: per Prezzolini in uno splendido nostalgico esilio, attraversato da progetti di ritorno in Italia, continuamente desiderati e mai attuati, per Papini nell’adesione programmatica al Fascismo dove l’unione di Stato e Chiesa, Potere e Gloria, si attuava nel segno di quell’intellettuale profeta che ben si rifletteva nello studio su Dante, pubblicato proprio nel 1933, pendant delle Impressioni dii uno che ritorna.
178
Vero è che, pur nelle incolmabili differenze, i due amici riescono sempre a non toccare i temi sui quali sanno che si sarebbero inevitabilmente divisi, e mantengono un franco e vivace scambio di opinioni. Come in occasione dell’uscita delle Lettere agli uomini di Papa Celestino VI, decisamente non ammirate da Prezzolini: «alle volte mi vien la speranza che si scopra che tu non credevi a niente di quello che hai scritto nella Vita di Cristo e nelle Lettere, e saresti allora davvero un grande scrittore, capace di aver imbrogliato mezzo mondo, compresi quei freddi amministratori della azienda ecclesiastica che sono i preti. Purtroppo temo che non sia così» (l. 1433, 18 aprile 1948, p. 509).
Non meno interessante della prima è l’ultima stagione testimoniata dal Carteggio, su cui insiste opportunamente Gloria Manghetti, mettendo in luce la fecondità creativa dell’ultimo Papini e riscontrando un legame tra la prima produzione ‘metafisica’ (così importante per Savinio e de Chirico, si pensi ai racconti del 1906 del Tragico quotidiano) e le favole fantastiche, o la grande opera divulgativa della Vita di Michelangiolo. Nell’ultimo tempo della loro «grande amicizia» (l’espressione con cui, dopo l’estremo saluto, Prezzolini racchiude il senso del suo rapporto con l’amico), i due sodali depongono le armi culturali e ideologiche e brandiscono quelle del ricordo, scrivendo le pagine più serene e pacate della loro lunga conversazione. Proprio da questo culto della memoria, ricordato nel suo valore fondativo da Gloria Manghetti, nasce la passione per i documenti, le lettere, le carte, che Prezzolini, dopo il trasferimento a Lugano, avrebbe donato alla Biblioteca Cantonale: «una attenzione mai fine a se stessa, bensì determinata dalla lucida intenzione di trarre utili elementi di indagine e approfondimento critici da missive che, se «non sono la storia», fanno comunque parte della “verità”» (dall’Introduzione, p. XLVI).
Di questa verità, e dello spirito battagliero che ne aveva animato la ricerca, sentiamo un’eco in una delle missive degli ultimi anni, quella del 1 settembre 1954, tutta dedicata al culto della memoria:
Ho finito in questi giorni un lavoro al quale mi ero dedicato da tre anni, ossia la classificazione per persone di tutte le lettere che conservai dal periodo della Voce e dopo che intendo lasciare alla Biblioteca Nazionale di Firenze in ricordo della ospitalità che ci dette. Sono circa 30.000. Fra le più conciate dall’umidità che c’era nel villino del Poveromo quando un proiettile distrusse il tetto, ci son proprio le tue. Ammiravo questo caso che regge le nostre cose che non ha nessun rispetto per i valori nostri. Quante lettere d’imbecilli, di mediocri, di vanesi avrei veduto maculate e mangiate senza dispiacere. Invece doveva proprio alle tue toccar questa sorte. Però si son salvate tutte, e soltanto ho dovuto metterle una ad una in custodie di Cellofane e si posson legger da ambedue le parti senza doverle maneggiare. Quanto belle sono e son sicuro che ti commoverebbero se le rileggessi (l. 1534, p. 647).
179
Un culto celebrato, questa volta senza divisioni di parte, anche da Papini che, infermo e cieco (nel novembre 1954 dichiara amaramente: «Il lavoro per me è l’unico rimedio contro la disperazione di questa mia quasi totale invalidità», p. 649), contende questo lavoro di raccolta e ordinamento con le drammatiche condizioni fisiche, riconosciute da Prezzolini, in un’ultima prova d’amicizia, come dimostrazione di tenacia, resistenza e di genio: «Soltanto ti dico che in questo tempo della tua vita hai dato una prova grandissima e una delle più belle della resistenza dello spirito. La tua battaglia contro tanti impedimenti resterà una delle più straordinarie della storia del genio. Tu hai lottato fino all’ultimo contro la stupidaggine della materia. E io ti ho seguito sempre con ammirazione» (l. 1537, 22 novembre 1954, p. 650).
◄ Indice 2013
◄ Paola Italia
◄ Cronologia